Situata nell’estremo
nord della
Giunea Bissau
la missione di Suzana
ha conosciuto molte
traversie. Oggi c’è un
embrione di Chiesa
che cresce tra la
popolazione felupe.
Il racconto di padre
Giuseppe Fumagalli
TUTTI LO CONOSCONO come padre Zé.
All’anagrafe Giuseppe Fumagalli. Zé è diminutivo di
José, nel portoghese parlato in Guinea Bissau.
Fumagalli dice le sue origini lombarde, Brianza
operosa, dove non si sta mai con le mani in mano. Nel
suo nome c’è la sintesi di una vita, tra Brugherio e
Suzana. Padre Zé Fumagalli è autenticamente l’una e
l’altra cosa. Missionario profondamente radicato nella
missione e tra la gente a cui è stato mandato più di
quarant’anni fa, è al contempo intrinsecamente
brianzolo, incapace di stare fermo, sempre a pensarne
una e a farne cento. Anche quando racconta. E allora
escono di continuo i riferimenti al felupe lingua che
parla come se fosse la sua alterna il criolo al
portoghese, più un po’ di francese perché la frontiera
con il Senegal è a pochi chilometri e un tempo era più
facile andare a Ziguinchor che a Bissau. E in mezzo a
questa «Babele», l’immancabile battuta in dialetto,
perché certe cose in italiano non hanno lo stesso
sapore. «E alùra?!», ci scherza su... Allora, padre Zé,
73 anni, portati su un fisico asciutto, sempre in
movimento, è ancora oggi la memoria e il presente di
Suzana. Una delle prime missioni del Pime in Guinea
Bissau: quella più a Nord, quella più isolata
durante la guerra d’indipendenza, quella etnicamente
omogenea: un popolo, una lingua, tradizioni ben
definite e forti resistenze al cambiamento.
Venne eretta nel 1942, aperta nel ‘43 con l’arrivo dei
francescani portoghesi, chiusa nel ’44. Quindi, affidata
al Pime il 29 gennaio del 1952. Esattamente
sessant’anni fa. Padre Zé vi è arrivato il 6 settembre
1968. E non se n’è più andato. A «tirargli la volata»,
come dice lui, è un altro grande missionario del Pime,
Spartaco Marmugi, toscanaccio purosangue, che per
primo «aveva cercato di camminare con la gente di
qui, di impararne la lingua e la cultura, di attendere
pazientemente che i semi dalla Parola dessero i primi
frutti. Al mio arrivo, si stavano preparando i primi
battesimi, dopo sedici anni di impegno e attesa».
Pazienza, costanza, genialità, grande capacità di lavoro
e la passione di far arrivare alla gente l’annuncio della
Buona Novella. Sono le caratteristiche che padre Zé
riconosce al suo predecessore (morto nel 1973 e
sepolto a Suzana) e che in qualche modo gli
corrispondono benissimo. «Ancora oggi cerchiamo di
far sentire a questa gente che fanno parte di qualcosa
di più grande».
Cominciata con un toscano, continua con
un brianzolo. Uomini di grande carattere,
ma profondamente attenti alla cultura locale
LA SUA STORIA personale si intreccia inevitabilmente con quella
della missione e del Paese. Nessuna è stata facile. All’inizio, durante gli
anni della colonizzazione portoghese, i missionari erano malvisti
specialmente se cercavano di promuovere l’istruzione e lo sviluppo
delle popolazioni. «Padre Marmugi - ricorda - mi aveva affidato la
scuola. Ma tutto il materiale era in portoghese, lingua che nessuno
parlava. E poi, a quei tempi, c’era ancora la dittatura fascista in
Portogallo e i libri avevano chiaramente la finalità di “assimilare” gli
alunni alla civiltà portoghese. Pensai, allora, che i bambini avrebbero
imparato prima e meglio nella loro lingua materna, e preparai i cartelli
con disegni e scritte nelle due lingue, coinvolgendo gli insegnanti in
ricerche che valorizzassero la loro cultura e tradizioni. Ma a quell’epoca
questo lavoro era visto come delitto di “lesa maestà”, che pagammo a
caro prezzo». Nel 1969 la missione venne attaccata. «Quando tiravano
con i mortai - ricorda - ci rifugiavamo in veranda; quando sparavano
con i kalashnikov in una stanza più riparata».Così come pagarono caro
il mancato sostegno ai ribelli del Fronte di liberazione (Fling), che
avevano le loro basi nel nord e che li costrinsero a lasciare la missione
per più di un anno, tra il ’61 e il ’63. Poi, però, padre Zé non può
dimenticare, con certo compiacimento, i momenti esaltanti
dell’indipendenza. «Mentre i portoghesi se ne andavano da Suzana, io
suonavo con la tromba l’inno guineano!», ricorda con un sorriso furbo.
Per non parlare di quando fecero l’ammaina bandiera ed erano già
pronti a deridere i guineani che di bandiere non ne avevano nemmeno
l’ombra. «Nella notte, mettendo insieme un po’ di stoffe recuperate qua
e là, eravamo riusciti a cucire la nuova bandiera della Guinea Bissau di
nascosto e in maniera rocambolesca. I portoghesi sono rimasti con un
palmo di naso!».
Finita l’euforia, però, sono cominciati i problemi. Gli oppressi si
rivelarono ben presto oppressori della loro stessa gente. E le missioni
non vennero risparmiate. In particolare, con la nazionalizzazione delle
scuole, molto del lavoro educativo che era stato fatto venne
completamente distrutto. Padre Zé, lui, ha continuato imperterrito e
determinato a consolidare due piloni su cui è retta la sua missione:
lavoro manuale e lavoro intellettuale. Entrambi a servizio della prima
evangelizzazione tra la popolazione felupe un sottogruppo dell’etnia
djola che ha portato alla creazione del primo embrione di Chiesa in
quest’angolo di Guinea.
ANCORA OGGI padre Zé si divide tra l’officina meccanica e l’ufficio.
Da una parte come dall’altra, c’è un caos creativo. In officina, lui che
era un grande appassionato di Moto Guzzi, ha riparato di tutto. E spesso
lo fa ancora: bici, auto, moto, trattori, tutto quel che capitava e serviva,
formando al contempo meccanici di buon livello in questa zona
sperduta e isolata di foresta. «Le attività manuali - dice - mi hanno
aiutato ad avvicinarmi alla gente che non concepiva altro tipo di lavoro.
Il nostro sudore che si mischia al loro sudore. Questo crea simpatia e
apre molto strade». Di strade padre Zé ne ha aperte molte, anche in
senso non metaforico. E ha costruito. Di tutto: chiese, cappelle, scuole,
case, persino ponti… E non si è ancora fermato. C’è la chiesetta di
Katon da finire e poi quella di Sao Domingos da allungare. E poi…
Ma soprattutto ha costruito e consolidato le piccole comunità cristiane
nate in questa regione tra tante difficoltà, contrarietà e incomprensioni.
Oggi però sono una realtà. Ed è tutt’altro che una cosa scontata.
«Davvero si fa fatica ad accompagnarne e sostenerne lo sviluppo - dice
-. Però c’è la profonda consolazione di vedere che il messaggio mette
radici, interpella le persone nell’intimo, gli fa brillare la prospettiva di
un cambiamento di vita radicale e aperto alla novità dell’azione dello
Spirito. Vedi le piccole comunità che diventano Chiesa, articolare al
loro interno una fitta rete di rapporti nuovi, cristiani, innestati su
rapporti antichi, di parentela e di amicizia, che vengono a loro volta
vivificati e rivissuti in pienezza».
COME PER LA SCUOLA, lui stesso ha cominciato dalla lingua.
Ma prima di parlare padre Zé ha cominciato… a cantare! Organista in
seminario, e capace di suonare più strumenti, si è messo naturalmente
ad ascoltare e a studiare la musica locale. Padre Marmugi già parlava e
faceva la catechesi in felupe, ma i canti erano ancora in portoghese e
latino. «Allora azzardai la proposta di preparare dei canti in lingua
locale. Non fu facile. La gente non accettava che si usassero melodie o
ritmi legati alle cerimonie e ai riti tradizionali. Poi facemmo un primo
canto, che piacque. Lo stesso il secondo, che la gente cominciava a
suonare con le loro chitarre. Nel 1969, per l’Ascensione, ne composi
uno che prevedeva l’uso dei tamburi. Era la prima volta che questo
strumento entrava in chiesa in Guinea Bissau. Oggi c’è quasi ovunque».
E oggi i felupe non solo cantano nella propria lingua le lodi al Signore,
ma nella propria lingua possono accedere ai testi del Vangelo e a quelli
della Messa, alla catechesi e alla preghiera, grazie a un lavoro enorme e
ancora non esaurito di traduzione che padre Zé continua
infaticabilmente, traducendo testi nuovi e perfezionando quelli vecchi.
La prima grammatica in felupe l’aveva scritta a metà degli anni
Settanta, quando ad affiancarlo era arrivato fratel Renato Rovelli,
un’altra figura storica della missione di Suzana. Renato, «Kabaka»,
come lo chiamava la gente per via della statura alta, è stato un punto di
riferimento importante proprio per la missione di Suzana, negli anni in
cui padre Zé era invece sempre fuori nei villaggi. «Siamo stati insieme
per 16 anni ricorda padre Zé -. Ci eravamo affiatati bene, più che in
amicizia, in fraternità. Scrissi per lui la prima grammatica di felupe in
italiano, con le traduzioni degli esempi in dialetto milanese, perché
fossero più immediati. Ogni tanto lo sentivo ridere per le battute che ci
inserivo. Sapevo che stava studiando… Intanto io continuavo a tradurre,
poi ciclostilavano insieme e lui rilegava».
OGGI PADRE ZÉ, nel suo ufficio, ha tre computer e ha installato
Internet. Lì dentro c’è tutta la memoria di questa missione che lui
rievoca, citando le date con impressionante precisione. Ma c’è anche
un’apertura al mondo impensabile sino a pochi anni fa. Ora comunicare
è più facile. Anche se non rinuncia al suo bollettino che con fedeltà
porta avanti dal 1972, «Notizie da Katon».
Le traduzioni per avvicinare la Parola alla gente;
il computer per comunicare con il mondo
Così come, ogni sera, fa partire puntualmente la radio comunitaria:
alcune ore di commenti alla Parola e di riflessione. Con il computer è
tutto più semplice. Non c’è più da cambiare le cassette come un tempo.
Ma c’è la concorrenza della radio commerciale che propone solo
musica e «ruba» ascoltatori, specialmente i giovani. Anche qui i tempi
stanno cambiando…
Padre Zé però è convinto: ci vuole costanza e fedeltà per consolidare
sempre di più una presenza di Chiesa che ha richiesto sessant’anni di
lavoro che ha ancora bisogno di molte attenzioni. A cominciare dalla
famiglia. «Padre Marmugi - ricorda - aveva attribuito un grande valore
alla famiglia nella costituzione della comunità cristiana. Io ho
continuato in quel solco». Non è stato facile. Il contesto è molto
tradizionale. La struttura sociale e culturale felupe non favorisce
facilmente i cambiamenti, anzi. I primi gruppi di cristiani sono stati
minacciati o cacciati dai villaggi. C’è stato il rischio che si creassero dei
“ghetti” ai margini del villaggio. E poi c’era e c’è ancora la questione
controversa del fanado, l’iniziazione tradizionale, il percorso che ogni
giovane deve fare per diventare un adulto, un “grande” con diritto di
parola nel villaggio e dunque di prendere delle decisioni. I cristiani
devono o no partecipare al fanado? La questione resta tuttora aperta e
controversa nella Chiesa guineana. Anche padre Zé ci si è confrontato e
scontrato più volte, con situazioni di rottura e crisi anche piuttosto
pesanti.
«È UN PERCORSO che devono fare loro, una decisione che spetta
loro, ma che deve essere accompagnata e presa non individualmente ma
come gruppo». È quanto è successo nei villaggi, mentre a Suzana ci
sono state gravi fratture e contrasti. Anche perché il villaggio aveva
deciso di togliere le risaie - ovvero la fonte principale di sussistenza - a
tutti coloro che non avessero mandato i propri figli al fanado. «Oggi ci
sono molte meno discriminazioni. Anzi, i villaggi si sono resi conto che
sono i cristiani quelli che aiutano di più e sono più responsabili, quelli
che assistono gli anziani e fanno partorire le donne in ospedale o in
casa, ma con un’assistenza adeguata. E poi, i cristiani hanno creato
legami di solidarietà anche tra villaggi un tempo nemici, partecipando
reciprocamente alle feste o ai lutti, o portandosi aiuto in caso di
bisogno. Questo ha contribuito ad attenuare molte tensioni che c’erano
in passato». Oggi, oltre a Suzana, ci sono nella zona altre cinque
comunità cristiane, piccole ma vivaci. La domenica ci si divide le
Messe. Padre Zé celebra a Suzana, nella grande chiesa della missione;
padre Franco Beati, il giovane missionario che lo affianca da quattro
anni e che parla già il felupe, se ne va in bicicletta nei villaggi di Ejin e
Ehlalab. Le piste sono pessime specialmente nella stagione delle
piogge, e ancora si è costretti a muoversi a piedi, in bici o in moto.
Padre Abramo, invece, è un prete guineano che da un anno vive nella
comunità; questa Domenica accompagna padre Giovanni, missionario
del Pime birmano, in visita alla missione, a celebrare nel villaggio di
Cassolol. La chiesetta si riempie un po’ alla volta. C’è gente di ogni età.
Molte donne e bambini, ma anche diversi giovani, che sono il vero
problema. «A causa della mancanza di scuole, se ne vanno tutti a Sao
Domingos o a Bissau - dice padre Franco - e con loro è difficile portare
avanti un cammino con una certa continuità e profondità».
Padre Franco: «I giovani?
Sono la sfida per il futuro»
UN ALTRO CAMMINO difficile ma fondamentale è quello con le
donne. E in questo ambito un lavoro importantissimo è stato fatto dalle
suore. Ci sono voluti un po’ di anni perché arrivassero in questo angolo
di Guinea. Richieste nel 1953, sono arrivate nel 1969. Ma poi sono
rimaste, sempre le stesse Rosetta, Maria e Adelia delle suore del Santo
nome di Dio – per 24 anni consecutivi, facendo un lavoro preziosissimo
non solo all’interno delle piccole comunità cristiane ma nei villaggi:
promozione della donna, dei suoi diritti, della salute materna e della sua
dignità. Come Maddalena, divenuta cristiana per rispetto e forse
obbedienza al marito, ma che poi, dopo una vita difficile, con due figli
persi e anche il marito morto, è diventata un punto di riferimento per la
comunità cristiana e le altre donne. Lei, analfabeta, ha spinto tante
ragazze a studiare e ha seguito lei stessa un corso di levatrice,
incoraggiando le partorienti a farsi assistere durante la gravidanza e il
parto. Lei, donna sottomessa per tradizione, ha testimoniato della
possibilità di un cammino di coppia e di famiglia nel rispetto reciproco.
Anche padre Zé lo riconosce: «La chiave dello sviluppo, alla base, sta
nella donna. Maddalena e le sue compagne, donne normali, con addosso
tutto il peso di tradizioni a volte discriminanti, si sentono finalmente
liberate dal Vangelo e lo condividono con gli altri».