Home Notizie da Katon Suzana oggi La storia Amici di Suzana Archivio Fotografie Fotografie Mondo e Missione Mondo e Missione L'articolo della giornalista Anna Pozzi è stato pubblicato sulla rivista del PIME "Mondo e Missione" di Gennaio 2012 N.1 anno 141
Situata nell’estremo nord della Giunea Bissau la missione di Suzana ha conosciuto molte traversie. Oggi c’è un embrione di Chiesa che cresce tra la popolazione felupe. Il racconto di padre Giuseppe Fumagalli
TUTTI LO CONOSCONO come  padre Zé.  All’anagrafe Giuseppe Fumagalli. Zé è diminutivo  di  José, nel portoghese parlato in Guinea Bissau.  Fumagalli dice le sue origini lombarde, Brianza  operosa, dove non si sta mai con le mani in mano. Nel  suo nome c’è la sintesi di una vita, tra Brugherio e  Suzana. Padre Zé Fumagalli è autenticamente l’una e  l’altra cosa. Missionario profondamente radicato nella  missione e tra la gente a cui è stato mandato più di  quarant’anni fa, è al contempo intrinsecamente  brianzolo, incapace di stare fermo, sempre a pensarne  una e a farne cento. Anche quando racconta. E allora  escono di continuo i riferimenti al felupe lingua che  parla come se fosse la sua alterna il criolo al  portoghese, più un po’ di francese perché la frontiera  con il Senegal è a pochi chilometri e un tempo era più  facile andare a Ziguinchor che a Bissau. E in mezzo a  questa «Babele», l’immancabile battuta in dialetto,  perché certe cose in italiano non hanno lo stesso  sapore. «E alùra?!», ci scherza su... Allora, padre Zé,  73 anni, portati su un fisico asciutto, sempre in  movimento, è ancora oggi la memoria e il presente di  Suzana. Una delle prime missioni del Pime in Guinea  Bissau: quella più a Nord, quella più isolata  
durante la guerra d’indipendenza, quella etnicamente  omogenea: un popolo, una lingua, tradizioni ben  definite e forti resistenze al cambiamento.  Venne eretta nel 1942, aperta nel ‘43 con l’arrivo dei  francescani portoghesi, chiusa nel ’44. Quindi, affidata  al Pime il 29 gennaio del 1952. Esattamente  sessant’anni fa. Padre Zé vi è arrivato il 6 settembre  1968. E non se n’è più andato. A «tirargli la volata»,  come dice lui, è un altro grande missionario del Pime,  Spartaco Marmugi, toscanaccio purosangue, che per  primo «aveva cercato di camminare con la gente di  qui, di impararne la lingua e la cultura, di attendere  pazientemente che i semi dalla Parola dessero i primi  frutti. Al mio arrivo, si stavano preparando i primi  battesimi, dopo sedici anni di impegno e attesa».  Pazienza, costanza, genialità, grande capacità di lavoro  e la passione di far arrivare alla gente l’annuncio della  Buona Novella. Sono le caratteristiche che padre Zé  riconosce al suo predecessore (morto nel 1973 e  sepolto a Suzana) e che in qualche modo gli  corrispondono benissimo. «Ancora oggi cerchiamo di  far sentire a questa gente che fanno parte di qualcosa  di più grande».  
Cominciata con un toscano, continua con un brianzolo. Uomini di grande carattere, ma profondamente attenti alla cultura locale
LA SUA STORIA personale si intreccia inevitabilmente con quella  della missione e del Paese. Nessuna è stata facile. All’inizio, durante gli  anni della colonizzazione portoghese, i missionari erano malvisti  specialmente se cercavano di promuovere l’istruzione e lo sviluppo  delle popolazioni. «Padre Marmugi - ricorda - mi aveva affidato la  scuola. Ma tutto il materiale era in portoghese, lingua che nessuno  parlava. E poi, a quei tempi, c’era ancora la dittatura fascista in  Portogallo e i libri avevano chiaramente la finalità di “assimilare” gli  alunni alla civiltà portoghese. Pensai, allora, che i bambini avrebbero  imparato prima e meglio nella loro lingua materna, e preparai i cartelli  con disegni e scritte nelle due lingue, coinvolgendo gli insegnanti in  ricerche che valorizzassero la loro cultura e tradizioni. Ma a quell’epoca  questo lavoro era visto come delitto di “lesa maestà”, che pagammo a  caro prezzo». Nel 1969 la missione venne attaccata. «Quando tiravano  con i mortai - ricorda - ci rifugiavamo in veranda; quando sparavano  con i kalashnikov in una stanza più riparata».Così come pagarono caro  il mancato sostegno ai ribelli del Fronte di liberazione (Fling), che  avevano le loro basi nel nord e che li costrinsero a lasciare la missione  per più di un anno, tra il ’61 e il ’63. Poi, però, padre Zé non può  dimenticare, con certo compiacimento, i momenti esaltanti  dell’indipendenza. «Mentre i portoghesi se ne andavano da Suzana, io  suonavo con la tromba l’inno guineano!», ricorda con un sorriso furbo.  Per non parlare di quando fecero l’ammaina bandiera ed erano già  pronti a deridere i guineani che di bandiere non ne avevano nemmeno  l’ombra. «Nella notte, mettendo insieme un po’ di stoffe recuperate qua  e là, eravamo riusciti a cucire la nuova bandiera della Guinea Bissau di  nascosto e in maniera rocambolesca. I portoghesi sono rimasti con un  palmo di naso!». Finita l’euforia, però, sono cominciati i problemi. Gli oppressi si  rivelarono ben presto oppressori della loro stessa gente. E le missioni  non vennero risparmiate. In particolare, con la nazionalizzazione delle  scuole, molto del lavoro educativo che era stato fatto venne  completamente distrutto. Padre Zé, lui, ha continuato imperterrito e  determinato a consolidare due piloni su cui è retta la sua missione:  lavoro manuale e lavoro intellettuale. Entrambi a servizio della prima  evangelizzazione tra la popolazione felupe un sottogruppo dell’etnia  djola che ha portato alla creazione del primo embrione di Chiesa in  quest’angolo di Guinea. 
ANCORA OGGI padre Zé si divide tra l’officina meccanica e l’ufficio.  Da una parte come dall’altra, c’è un caos creativo. In officina, lui che  era un grande appassionato di Moto Guzzi, ha riparato di tutto. E spesso  lo fa ancora: bici, auto, moto, trattori, tutto quel che capitava e serviva,  formando al contempo meccanici di buon livello in questa zona  sperduta e isolata di foresta. «Le attività manuali - dice - mi hanno  aiutato ad avvicinarmi alla gente che non concepiva altro tipo di lavoro.  Il nostro sudore che si mischia al loro sudore. Questo crea simpatia e  apre molto strade». Di strade padre Zé ne ha aperte molte, anche in  senso non metaforico. E ha costruito. Di tutto: chiese, cappelle, scuole,  case, persino ponti… E non si è ancora fermato. C’è la chiesetta di  Katon da finire e poi quella di Sao Domingos da allungare. E poi…  Ma soprattutto ha costruito e consolidato le piccole comunità cristiane  nate in questa regione tra tante difficoltà, contrarietà e incomprensioni.  Oggi però sono una realtà. Ed è tutt’altro che una cosa scontata.  «Davvero si fa fatica ad accompagnarne e sostenerne lo sviluppo - dice  -. Però c’è la profonda consolazione di vedere che il messaggio mette  radici, interpella le persone nell’intimo, gli fa brillare la prospettiva di  un cambiamento di vita radicale e aperto alla novità dell’azione dello  Spirito. Vedi le piccole comunità che diventano Chiesa, articolare al  loro interno una fitta rete di rapporti nuovi, cristiani, innestati su  rapporti antichi, di parentela e di amicizia, che vengono a loro volta  vivificati e rivissuti in pienezza».  COME PER LA SCUOLA, lui stesso ha cominciato dalla lingua.  Ma prima di parlare padre Zé ha cominciato… a cantare! Organista in  seminario, e capace di suonare più strumenti, si è messo naturalmente  ad ascoltare e a studiare la musica locale. Padre Marmugi già parlava e  faceva la catechesi in felupe, ma i canti erano ancora in portoghese e  latino. «Allora azzardai la proposta di preparare dei canti in lingua  locale. Non fu facile. La gente non accettava che si usassero melodie o  ritmi legati alle cerimonie e ai riti tradizionali. Poi facemmo un primo  canto, che piacque. Lo stesso il secondo, che la gente cominciava a  suonare con le loro chitarre. Nel 1969, per l’Ascensione, ne composi  uno che prevedeva l’uso dei tamburi. Era la prima volta che questo  strumento entrava in chiesa in Guinea Bissau. Oggi c’è quasi ovunque».  E oggi i felupe non solo cantano nella propria lingua le lodi al Signore,  ma nella propria lingua possono accedere ai testi del Vangelo e a quelli  della Messa, alla catechesi e alla preghiera, grazie a un lavoro enorme e  ancora non esaurito di traduzione che padre Zé continua  infaticabilmente, traducendo testi nuovi e perfezionando quelli vecchi.  La prima grammatica in felupe l’aveva scritta a metà degli anni  Settanta, quando ad affiancarlo era arrivato fratel Renato Rovelli,  un’altra figura storica della missione di Suzana. Renato, «Kabaka»,  come lo chiamava la gente per via della statura alta, è stato un punto di  riferimento importante proprio per la missione di Suzana, negli anni in  cui padre Zé era invece sempre fuori nei villaggi. «Siamo stati insieme  per 16 anni ricorda padre Zé -. Ci eravamo affiatati bene, più che in  amicizia, in fraternità. Scrissi per lui la prima grammatica di felupe in  italiano, con le traduzioni degli esempi in dialetto milanese, perché  fossero più immediati. Ogni tanto lo sentivo ridere per le battute che ci  inserivo. Sapevo che stava studiando… Intanto io continuavo a tradurre,  poi ciclostilavano insieme e lui rilegava».  
OGGI PADRE ZÉ, nel suo ufficio, ha tre computer e ha installato  Internet. Lì dentro c’è tutta la memoria di questa missione che lui  rievoca, citando le date con impressionante precisione. Ma c’è anche  un’apertura al mondo impensabile sino a pochi anni fa. Ora comunicare  è più facile. Anche se non rinuncia al suo bollettino che con fedeltà  porta avanti dal 1972, «Notizie da Katon».
Le traduzioni per avvicinare la Parola alla gente; il computer per comunicare con il mondo
Così come, ogni sera, fa partire puntualmente la radio comunitaria:  alcune ore di commenti alla Parola e di riflessione. Con il computer è  tutto più semplice. Non c’è più da cambiare le cassette come un tempo.  Ma c’è la concorrenza della radio commerciale che propone solo  musica e «ruba» ascoltatori, specialmente i giovani. Anche qui i tempi  stanno cambiando…  Padre Zé però è convinto: ci vuole costanza e fedeltà per consolidare  sempre di più una presenza di Chiesa che ha richiesto sessant’anni di  lavoro che ha ancora bisogno di molte attenzioni. A cominciare dalla  famiglia. «Padre Marmugi - ricorda - aveva attribuito un grande valore  alla famiglia nella costituzione della comunità cristiana. Io ho  continuato in quel solco». Non è stato facile. Il contesto è molto  tradizionale. La struttura sociale e culturale felupe non favorisce  facilmente i cambiamenti, anzi. I primi gruppi di cristiani sono stati  minacciati o cacciati dai villaggi. C’è stato il rischio che si creassero dei  “ghetti” ai margini del villaggio. E poi c’era e c’è ancora la questione  controversa del fanado, l’iniziazione tradizionale, il percorso che ogni  giovane deve fare per diventare un adulto, un “grande” con diritto di  parola nel villaggio e dunque di prendere delle decisioni. I cristiani  devono o no partecipare al fanado? La questione resta tuttora aperta e  controversa nella Chiesa guineana. Anche padre Zé ci si è confrontato e  scontrato più volte, con situazioni di rottura e crisi anche piuttosto  pesanti. «È UN PERCORSO che devono fare loro, una decisione che spetta  loro, ma che deve essere accompagnata e presa non individualmente ma  come gruppo». È quanto è successo nei villaggi, mentre a Suzana ci  sono state gravi fratture e contrasti. Anche perché il villaggio aveva  deciso di togliere le risaie - ovvero la fonte principale di sussistenza - a  tutti coloro che non avessero mandato i propri figli al fanado. «Oggi ci  sono molte meno discriminazioni. Anzi, i villaggi si sono resi conto che  sono i cristiani quelli che aiutano di più e sono più responsabili, quelli  che assistono gli anziani e fanno partorire le donne in ospedale o in  casa, ma con un’assistenza adeguata. E poi, i cristiani hanno creato  legami di solidarietà anche tra villaggi un tempo nemici, partecipando  reciprocamente alle feste o ai lutti, o portandosi aiuto in caso di  bisogno. Questo ha contribuito ad attenuare molte tensioni che c’erano  in passato». Oggi, oltre a Suzana, ci sono nella zona altre cinque  comunità cristiane, piccole ma vivaci. La domenica ci si divide le  Messe. Padre Zé celebra a Suzana, nella grande chiesa della missione;  padre Franco Beati, il giovane missionario che lo affianca da quattro  anni e che parla già il felupe, se ne va in bicicletta nei villaggi di Ejin e  Ehlalab. Le piste sono pessime specialmente nella stagione delle  piogge, e ancora si è costretti a muoversi a piedi, in bici o in moto.  Padre Abramo, invece, è un prete guineano che da un anno vive nella  comunità; questa Domenica accompagna padre Giovanni, missionario  del Pime birmano, in visita alla missione, a celebrare nel villaggio di  Cassolol. La chiesetta si riempie un po’ alla volta. C’è gente di ogni età.  Molte donne e bambini, ma anche diversi giovani, che sono il vero  problema. «A causa della mancanza di scuole, se ne vanno tutti a Sao  Domingos o a Bissau - dice padre Franco - e con loro è difficile portare  avanti un cammino con una certa continuità e profondità».  
Padre Franco: «I giovani? Sono la sfida per il futuro»
UN ALTRO CAMMINO difficile ma fondamentale è quello con le  donne. E in questo ambito un lavoro importantissimo è stato fatto dalle  suore. Ci sono voluti un po’ di anni perché arrivassero in questo angolo  di Guinea. Richieste nel 1953, sono arrivate nel 1969. Ma poi sono  rimaste, sempre le stesse Rosetta, Maria e Adelia delle suore del Santo  nome di Dio – per 24 anni consecutivi, facendo un lavoro preziosissimo  non solo all’interno delle piccole comunità cristiane ma nei villaggi:  promozione della donna, dei suoi diritti, della salute materna e della sua  dignità. Come Maddalena, divenuta cristiana per rispetto e forse  obbedienza al marito, ma che poi, dopo una vita difficile, con due figli  persi e anche il marito morto, è diventata un punto di riferimento per la  comunità cristiana e le altre donne. Lei, analfabeta, ha spinto tante  ragazze a studiare e ha seguito lei stessa un corso di levatrice,  incoraggiando le partorienti a farsi assistere durante la gravidanza e il  parto. Lei, donna sottomessa per tradizione, ha testimoniato della  possibilità di un cammino di coppia e di famiglia nel rispetto reciproco.  Anche padre Zé lo riconosce: «La chiave dello sviluppo, alla base, sta  nella donna. Maddalena e le sue compagne, donne normali, con addosso  tutto il peso di tradizioni a volte discriminanti, si sentono finalmente  liberate dal Vangelo e lo condividono con gli altri». 
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