Fratel Renato
Renato era l'ultimo di cinque fratelli, rimasti orfani di padre molto
presto. La mamma si sobbarcò il peso di tutta la famiglia, nella
campagna di Velate Milanese, coadiuvata dal maggiore dei figli..
E' cresciuto all'oratorio del paese e gli è rimasto lo spirito dell'oratorio
milanese, con una sottolineatura forte dell'aspetto formativo del
ragazzo in crescita.
E' rimasto in casa fino alla morte della mamma. Lavorava alla
Lombarda Petroli a Villasanta ed era volontario della Croce Rossa a
Monza. Sembrava avviato al matrimonio come gli altri fratelli, ma
l'idea di farsi missionario era già apparsa e andava rafforzandosi.
fece il corso di infermiere e si diplomò. Gli sarebbe venuto buono.
Dopo la morte della mamma si presentò a Busto, dove, il primo
giorno, fu come "preso in consegna" (così diceva lui) dal fratel Luigi
Capelli, col quale si sarebbe poi ritrovato in missione, in Guinea
Bissau.
Finito il tirocinio nel 75, fece il giuramento e fu destinato. Credeva
fortemente nella Missione e vedeva il "fratello missionario" come un
missionario autentico, con una personalità ben definita, lavorando in unità di
intenti col missionario prete, con la possibilità di arrivare dove il prete non
sarebbe arrivato. Serenamente, senza rivendicazioni, quasi trasferendo
dall'oratorio le figure dei formatori e degli animatori, preti e laici.
E' venuto qui a Suzana nel '76, qualche mese dopo il suo arrivo in Guinea, che
aveva trovato sprovvista di tutto: erano anni difficili quelli, non si trovava niente,
tutto era statalizzato e quello che c'era era per... gli "statali".
E' venuto a Suzana con P. Mario Faccioli, allora Superiore Regionale, a farmi
compagnia per la Pasqua di quell'anno: ero qui da solo. E' rimasto un mese, poi,
il 31 Maggio, è tornato e siamo rimasti insieme ben tredici anni di fila. Allora,
quando venne, io stavo continuando la costruzione della missione di Katon,
iniziata da P. Marmugi il due Gennaio del '73 e sospesa per ordine del
Governatore portoghese qualche mese dopo, in Marzo. Finalmente, dopo la liberazione e l'indipendenza, avevo avuto semaforo verde e mi ci
ero buttato, senza aiuto e senza soldi. Ricordo che il giorno che è arrivato gli ho detto: "Sto andando a Katon a lavorare, vieni?" "Subito fu la
risposta, Andiamo".
Così cominciò il nostro cammino insieme, in tutta semplicità. Non era molto robusto di costituzione, aveva già avuto notevoli difficoltà in fatto
di salute e faceva fatica a tenere il passo, però riuscivamo lo stesso a portare avanti i nostri compiti. Era infermiere professionale, ma non
esercitò che sporadicamente: sempre si adattò a fare ciò che la situazione richiedeva: per l'infermeria c'erano le suore e, al più, interveniva
quando lo chiamavano o per dare delle dritte.
Io giravo per i villaggi, stavo fuori tutta la settimana, e lui portava avanti il lavoro al centro, a Suzana. Quando andavo a Ejin in tempo di
pioggia, nella casetta di fango che avevamo allora, ci andavo in bicicletta. Passavo il fiume in canoa e continuavo dall'altra parte. Mi portavo
uno zainetto, con una batteria da moto per l'illuminazione, qualche libro per le traduzioni e la catechesi e qualche scatoletta di cibo. Avevamo
il giorno stabilito a metà settimana, quando ci incontravamo al fiume e lui arrivava in bici con altro scatolame e qualcosa di fresco che
preparava sempre, una sorpresa ogni volta. Ci si fermava un po' a chiacchierare, ci scambiavamo le ultime notizie, poi via, ognuno dalla sua
parte.
Lui restava a Suzana, ma non ci rimaneva con le mani in mano. Soprattutto all'inizio si prodigò in varie attività: orto, falegnameria, officina in
genere, in cui badava alla formazione dei nostri giovani. Si era anche riservato il compito di decorare i lezionari liturgici che stavo buttando
fuori in Felup e le suppellettili della cappella, con una pazienza da certosino. Seguiva pure i lettori.
Nel '77 spinse tanto per completare le celebrazioni liturgiche della Settimana Santa al completo che dovetti cedere. Fu un "tour de force"
autentico. Dovetti completare le traduzioni, fare tre o quattro canti fatti bene (si tratta delle celebrazioni centrali di tutto l'anno liturgico!) e
insieme preparammo una croce in palissandro, bella, e lui si riservò il lavoro più faticoso in falegnameria. Ricordo che per il piede della croce
avevamo solo dei travetti di manconia. Se li lavorò per bene e si prese una bella febbre respirando quella segatura micidiale. Ma continuò, e
la celebrazione quell'anno, preparata con tanta catechesi, sorprese tutti e segnò un grosso passo avanti.
C'eravamo affiatati bene, più che in amicizia, in fraternità. Scrissi per lui la prima grammatica di Felupe, in Italiano, con le traduzioni degli
esempi in dialetto milanese, perché fossero più immediati: ogni tanto lo sentivo ridere per le battute che vi inserivo. Stava studiando. Io
traducevo i vari libri del nuovo testamento, scrivevo i catechismi, ciclostilavamo insieme, poi lui rilegava, e l'impresa andava in porto
Non riuscì mai a fare delle catechesi a gruppi forti, prediligeva il contatto personale e costruiva con pazienza. Il contributo più originale che ha
dato e che rimarrà nella storia e nella vita della chiesa di Suzana è l'accompagnamento e la preparazione delle giovani coppie al matrimonio e
nei primi anni della vita matrimoniale. Davvero, se tante cose parlano di lui in questa missione, ciò che parla di più sono le persone,
soprattutto queste famiglie nuove, nate, formate e cresciute come qui non si sapeva ancora: i primi battesimi erano ancora recenti, la
comunità era ai primi anni di vita, una vita cristiana appena abbozzata, anche se fondata su basi solide; si dovevano impostare in maniera
cristiana le varie fasi formative e le varie espressioni della "vita nuova" nel contesto culturale felup. Lui ci ha lavorato e ne é nata una realtà
che ormai è diventata "tradizione" e "cultura cristiana", che ha messo radici e continuerà.
Fu richiamato in Italia, dopo 13 anni, nel 1989 per un servizio nell'Istituto e inviato anche in Brasile, per la formazione dei Missionari Laici.
Quando ritornò, nel '93, venne di nuovo a Suzana, dove ero rimasto un'altra volta solo. La salute non lo sosteneva più così bene, si era fatto
più fragile. Io tiravo ancora bene a quei tempi e ogni tanto gli dicevo "Renato, che hai? Perdi colpi?" Non era la cosa migliore che gli potessi
dire, ma, abituato com'ero a sentirlo sempre vicino e pronto, non mi pareva possibile che attardasse il passo. E lui arrancava, ma si vedeva
che non ce la faceva più così bene. Dopo quasi quattro anni fu chiamato a Bissau per dirigere la nuova casa regionale, praticamente a
servizio di tutti noi. A Bissau nel 98-99, ha vissuto i tempi della guerra, dando assistenza anche medica a un'infinità di rifugiati. Poi i lavori per
terminare di sistemare e rendere accogliente la Casa Regionale. E' lì che la malattia è saltata fuori in tutta la sua virulenza e in pochi mesi se
l'è portato via.
Qui, nella missione in cui ha lavorato per tanti anni, abbiamo seguito il suo calvario pregando insistentemente, prima per la sua guarigione e,
ultimamente, perché il Signore lo aiutasse a prepararsi all'incontro con Lui, che pensiamo gioioso, del "servo buono e fedele".