Kutujenio
Sorseggiava il vino di palma dalla sua ciotola, godendosi gli ultimi
raggi del sole ormai al tramonto. I rari passanti che rientravano alle
loro case lo salutavano con rispetto. Kutujenuiò era un anziano del
villaggio di Ejin, una delle più alte autorità del collegio degli anziani:
a lui venivano affidati i giovani per l'iniziazione. Era benedetto da
Dio e dagli spiriti: era già sull'ottantina, godeva di buona salute,
sua moglie, Anjiroken, era la donna che gli aveva dato tutti i figli
che aveva e nessuno, come loro, poteva vantarsi di avere due figli
maschi tutti e due sopravvissuti alle varie epidemie che avevano
falciato gli altri bambini; non solo, ma il primo dei suoi figli ormai gli
aveva già regalato tre nipoti maschi, tutti e tre vivi, crescevano
bene e tutto faceva prevedere che non sarebbero stati i soli, visto
che i loro genitori erano ancora giovani e in ottima salute.
In un batter d'occhio, al tramonto era succeduta la notte.
Mentre la moglie preparava la cena, Kutujenuiò accese un
focherello, ne prese un po' di fuoco e si accese la pipa. Il tabacco era diventato caro negli ultimi anni. Ma i suoi figli si
ingegnavano a pescare e a cacciare, per cui avevano sempre qualcosa da scambiare per una foglia di tabacco. U|ole, il secondo
dei figli maschi, era ancora giovane, aveva già la sua ragazza e doveva pensare a costruirsi la casa, ma trovava anche la maniera di non far
mancare niente a suo padre. Il primogenito poi, Enghirìa, che si faceva chiamare Antonio, era davvero impareggiabile: alto poco più del
normale, era massiccio, calmo, di una forza serena e ragionata. Aveva tutte le qualità per succedergli nel Collegio degli Anziani del villaggio.
Quella sera, dopo che ebbero cenato, tornò a sedersi presso il fuoco e aspirva le ultime boccate dalla inseparabile pipa, prima di ritirarsi
a dormire. Antonio gli si avvicinò, gli diede una foglia di tabacco e attaccò il discorso.
- Padre, ho fatto un sogno, ma non so che cosa significa quello che ho visto.
- Raccontami, figlio, forse potrò aiutarti.
- Ecco, sentivo della gente cantare. Ho seguito le voci e sono arrivato vicino a una grande casa. Dentro c'era luce. Mi sono fermato vicino
a una delle porte per guardare dentro. C'era tanta gente, erano contenti ed erano rivolti tutti dalla stessa parte. Ho guardato anch'io ed ho visto
che davanti a loro c'era un uomo bianco. Ho sentito una grande gioia dentro di me. Non so perché, ma ero contento di stare lì con loro. Non
saprei dirti se ho riconosciuto quelle facce, ma me li sentivo vicini, come se li conoscessi tutti, come se fossimo tutti fratelli. Poi mi sono
svegliato, é svanito tutto, ma non la gioia che mi sentivo dentro. Cosa sarà? Forse Dio, Emitai, vorrà dirmi qualcosa?
Kutujenuiò tacque, pensoso. Quello che suo figlio aveva visto in sogno, lui, tanti anni prima, lo aveva visto lontano da lì, quando i bianchi
lo avevano portato alla loro città e lo avevano rinchiuso in prigione. C'erano anziani anche degli altri villaggi con cui avevano fatto guerra ed i
bianchi li avevano portati via appunto per farli trattare. Era stato allora che aveva visto i cristiani, come si riunivano, come cantavano quando
facevano le loro cerimonie...Non c'erano solo bianchi, c'erano molti Papeis e Manjak, ma Jòla Felup come lui, nessuno. Cantavano,
pregavano, ma non si capiva niente di quello che dicevano perché usavano la lingua dei bianchi. Non aveva osato domandare spiegazioni,
però gli avevano fatto una certa impressione...
Antonio osservava il padre, aspettando pazientemente che gli rivolgesse la parola. Kutujenuiò frugava tra i ricordi e cercava di capire che
collegamento poteva esserci tra quanto aveva visto lui ad occhi aperti tanti anni prima e quanto suo figlio aveva visto in sogno provandone
tanta gioia. Veramente, da qualche anno, a Suzana, il villaggio centrale dei Jòla Felup, c'erano dei bianchi diversi dagli altri, li chiamavano
"padri". Avevano costruito una casa grande, anzi più case, ma una era più grande delle altre e ci stava molta gente. Non solo, ma aveva
sentito che in quella casa si riuniva della gente di Suzana, Jòla Felup come lui e cantavano e pregavano come quelli che lui aveva visto tanti
anni prima. Anzi, no, c'era anche una cosa nuova: quello che dicevano si capiva, parlavano la linga jòla e chiamavano Dio con lo stesso nome
con cui avevano imparato a chiamarlo dai loro padri: Emitai. Ecco, forse andando da loro suo figlio avrebbe trovato una spiegazione.
- Figlio, disse, vai a Suzana. Tu sai dov'é quella che chiamano missione; vai là e...troverai quello che hai visto.
Antonio esitò un momento. Aveva sentito anche lui che a Suzana c'era la missione, c'erano i padri, li aveva anche visti passare nel fiume
non lontano per andare negli altri villaggi, ma non gli era mai capitato di vederli assieme alla gente in una casa grande, come gli era accaduto
in sogno. Quello che aveva sentito dire era che gli anziani di Suzana e degli altri villaggi avevano visto male che alcuni avevano seguito quei
bianchi, così diversi dagli altri, li avevano anche bastonati. Ne conosceva alcuni anche lui e sapeva che avevano dovuto abbandonare le loro
case nel villaggio per ricostruirle fuori, vicino alla missione: erano stati scacciati, messi fuori dal loro popolo. Raccontò al padre quanto sapeva,
manifestandogli le sue apprensioni.
- Figlio, vai- gli disse il padre- se quello che hai visto in sogno viene da Dio, vai a vedere di che cosa si tratta. Se Dio parla, non parla
invano.
L'indomani, il sole non era ancora sorto che Antonio già aveva percorso un bel pezzetto del sentiero che porta a Suzana. Arrivato al
fiume respirò sollevato: c'erano due canoe, una da una parte del fiume e una dall'altra. Attraversò. Arrivato all'altra sponda, legò l'altra canoa
alla sua e la rimorchiò dalla parte donde era venuto; poi riattraversò. Tutto a posto: una canoa su una sponda e una sull'altra. Si affrettò
attraverso il bosco fitto. Il sole stava sorgendo e l'aria era ancora fresca, si camminava bene. Quando fu vicino al villaggio, non voleva credere
alle sue orecchie. Sentiva cantare e il canto veniva proprio dalla missione. Affrettò il passo: ormai scorgeva la missione e udiva distintamente
le voci ed i tamburi, ma non vedeva nessuno. Entrò nel cortile della missione: il canto veniva dalla casa più grande. Si avvicinò trepidante, si
affacciò ad una finestra e...sì, quella gioia che aveva sentito in sogno gli risorgeva in cuore: suo padre aveva visto giusto! Timidamente entrò e
rimase presso il muro. Fu invitato a sedersi. Ascoltò il canto... ma sì, capiva le parole ed erano così belle! Sentì che quello era il suo posto!
Quando vide che gli altri uscivano, uscì anche lui. Gli si avvicinò un suo coetaneo, con cui si erano sfidati tante volte alla festa annuale
della lotta a Suzana. Lo salutò e lo invitò a casa. Conversarono a lungo; avevano tempo, gli disse l'altro: era capitato proprio di domenica,
quando avevano la loro "grande preghiera". Antonio si confidò con l'amico ed espose anche le sue apprensioni circa le eventuali reazioni del
suo villaggio quando avesse preso il cammino dei cristiani e l'amico lo rassicurò: sì, c'era stato da soffrire e c'era ancora da soffrire da parte
degli anziani. E non solo loro, ma anche il padre, ultimamente, aveva avuto tanti fastidi dagli altri bianchi, dai militari; eppure, in questi
frangenti, avveniva una cosa strana: si sentivano tutti più uniti, più eguali e...più contenti.
Mentre ritornava al villaggio, Antonio rifletteva e affrettava il passo, impaziente di riferire al padre quanto gli era accaduto. Gli raccontò
ogni cosa e aggiunse che, per lui, la decisione era presa: col tempo avrebbe parlato anche con il bianco, il padre, ma già fin d'ora chiedeva a
Dio di continuare a guidarlo sul sentiero che gli aveva indicato; e poi c'era anche quel suo amico che lo avrebbe aiutato a capire, e anche gli
altri. Non aveva paura nemmeno dell'eventualità di aver da soffrire da parte della gente del villaggio. Solo temeva per lui, il vecchio padre e
per la madre.
- Non temere per me, figlio mio -gli disse il padre- né per la tua vecchia madre: se questa é la strada che Emitai ti ha tracciato, seguila:
siamo tutti nelle sue mani.
Nel giro di pochi mesi i rapporti erano allacciati. Ci vedevamo regolarmente con Antonio e con gli altri che erano venuti poco a poco dopo
di lui. Anche la moglie di Antonio seguì il marito. Poi fu la volta di altri uomini, tra cui il fratello di Antonio: arrivarono perfino a costruire, fuori dal
villaggio, una casetta di fango perché io potessi fermarmi più giorni con loro.
Gli anziani del villaggio erano preoccupati. I colleghi degli altri villaggi li rimproveravano perché non facevano nulla per evitare che quella
gente si perdesse e abbandonasse le tradizioni ereditate dagli avi. Ma come fare, se c'erano di mezzo anche i figli di Kutujenuiò? Senza
discutere l'argomento in sua presenza, cominciarono le rappresaglie. Non c'era festa in cui non si cantassero stornelli per canzonare "quelli
della missione", e questo avveniva non solo tra di loro, nel villaggio di Ejin, ma anche fuori, quando andavano alle feste negli altri villaggi. Per
non dire di quando qualcuno passava presso le loro case e intonava qualcuno di quei motivetti pungenti. Perfino i bambini li avevano imparati
e li ripetevano, senza malizia, va bene, ma intanto pungevano lo stesso. Era duro non controbattere, e le donne, più sensibili a quegli insulti e
più ricche di fantasia, già stavano preparando canti per rispondere per le rime. L'avrebbero fatto, se gli uomini, su suggerimento dei fratelli
delle altre comunità e mio, non le avessero persuase a sopportare per un po', tanto, sarebbero usciti dal villaggio con le loro case.
Appena terminò la stagione delle piogge, Antonio, spalleggiato dal vecchio padre, cominciò a costruire la sua casa vicino a quella che
avevano fatto per me, imitato in questo anche dagli altri che lo avevano seguito in quel cammino. Prima che la stagione delle piogge
ritornasse, vi si trasferirono con le loro famiglie, come avevano fatto quelli di Suzana.
Ormai era chiaro, l'unica maniera per non fare guerra era di "tirarsi in là" e, come era uscito Antonio con altre quattro famiglie, in seguito
anche altri ne avrebbero seguito l'esempio. Che fare? La rappresaglia si abbatté con tutta la sua pesantezza su chi era sospettato di
appoggiare la manovra: Kutujenuiò fu degradato, spogliato di ogni autorità e espulso dal villaggio. Era come morire per lui. Gli era venuto
meno il suo mondo, il mondo nel quale era vissuto per più di ottant'anni. Per la sua gente egli non esisteva più...Ogni volta che gli anziani del
villaggio si riunivano per decidere qualcosa, Kutujenuiò non era nemmeno avvisato. Lo veniva a sapere dopo e ne soffriva.
Antonio lo portò a casa sua, con la madre. Riservò loro una parte della casa: una stanza, con un pezzo di veranda. I bambini facevano
festa ai nonni e i membri della comunità nascente li trattavano con grande rispetto e comprensione. Anche dalle altre comunità si era vicini al
dramma di queste persone, proscritte solo perché non si erano opposte alle scelte dei loro figli. Da parte mia non mancavo di stargli vicino ed
ogni volta che arrivavo o partivo mi fermavo un po' con lui. Soffriva per l'isolamento cui il villaggio l'aveva condannato ed era taciturno. Se già
prima non era di molte parole, ora, quando rispondeva, lo faceva a monosillabi.
Il primo gruppo di famiglie di Ejin stava percorrendo il catecumenato a grandi passi. Dalle prime catechesi erano passati più di cinque
anni ed era maturato un primo nucleo della nuova comunità. Kutujenuiò vedeva tutto questo, ma come una cosa lontana, come da assente.
Pareva che la ferita che gli avevano inferto non si volesse rimarginare, nonostante le attenzioni ed il rispetto che la comunità gli manifestava.
In fin dei conti erano tutti "ragazzi", potevano essere suoi figli; non c'era nessuno della sua età, nemmeno nelle comunità degii altri villaggi: si
sentiva fuori posto. Lo vedevo invecchiato, si era anche un po' incurvato e il sorriso si spegneva subito, quelle poche volte che appariva sulle
sue labbra.
Venne il giorno del Battesimo delle prime famiglie. Vennero i padri, anche da altre missioni, vennero le suore, arrivò gente da tutte le
comunità circostanti: fu una festa memorabile, nasceva una nuova comunità cristiana. Vennero cristiani e catechisti anche dal Senegal: alcuni
erano anziani, c'era un catechista, Jòla anche lui, coi capelli bianchi. Kutujenuiò ne fu colpito e comprese: vide coi suoi occhi, che quel
"cammino" non era solo dei "ragazzi", che era anche per anziani come lui. Ne parlammo ed accettò di conversre sull'argomento, sbloccato,
come liberato da qualcosa. Quel giorno fu un giorno sereno per lui.
E non fu l'unico, fu solo il primo. Ormai potevamo parlare del cammino che i suoi figli avevano intrapreso con più interesse, come di
qualcosa che adesso lo riguardava da vicino. Gli facemmo la proposta di prepararsi anche lui al Battesimo, con sua moglie: i suoi figli lo
avrebbero aiutato. Anzi, ormai anche il più giovane si era sposato e insieme con la moglie stava percorrendo le ultime tappe del
catecumenato: chissà, forse avrebbero potuto ricevere il Battesimo insieme. Gli occhi di Kutujeniò brillavano. Il sorriso riapparve sulle sue
labbra. Si disse d'accordo e cominciò la catechesi, naturalmente ridotta all'essenziale.
Qualche tempo dopo venne a trovarmi, con la moglie, nella casetta di fango. Era una visita "ufficiale", solenne, decisiva.
- Vedi, mi disse, i miei figli mi stanno insegnando il cammino di Cristo. Ascolto anche tutto quello che tu dici. Ma io sono vecchio e non
riesco a tenere a mente tutto. Anche mia moglie ascolta, capisce un po' più di me, ma, quando le domando spiegazioni, mi dice che non me lo
sa ripetere. Però ti dico una cosa: tutto quello che i miei figli credono, lo credo anch'io, il cammino che loro hanno preso, lo prendo anch'io,
quello che loro vogliono, lo voglio anch'io. Solo che io sono vecchio e non ho più forze: però Emitai lo sa e sa che ormai non m'importa più di
quello che mi hanno fatto. Mi hanno cacciato dal villaggio, ho sofferto molto. Però sono contento che ho trovato questo cammino. Sono
contento che sono qui coi miei figli e coi figli dei miei figli. Guarda quante case sono sorte ormai qui vicino alla tua: é tutta gente che ha preso
questo cammino, li conosco tutti e siamo tutti in pace. Non mi restano molti anni da vivere. Da' anche a me l'acqua della vita e poi aspetterò
che il Signore mi venga a prendere: ormai non mi manca più niente. Non é vero, donna? - disse rivolto alla moglie, che concordò.
Furono battezzati a Santo Stefano del 1980 e fu una grande festa. Antonio, come aveva promesso, macellò una vacca. La pioggia era
stata buona quell'anno e già si stava mietendo il primo riso. Ci radunammo da tutte le comunità e vennero, invitati speciali, i cristiani anziani
del vicino Senegal che erano stati per lui il "segno" che gli aveva indicato il cammino. Kutujenuiò era felice: gli occhi gli luccicavano, e non solo
i suoi.
Visse ancora tre anni, partecipando alla vita della comunità. La gioia non lo abbandonava mai, nemmeno quando cominciò a declinare
sotto il peso degli anni. Non poteva più venire alla Messa in cappella, anche se era vicinissima. Dopo aver distribuito la Comunione, si formava
un piccolo corteo e uscivamo cantando per portare l'Eucaristia al "padre", il nostro uomo grande, e gli occhi gli si illuminavano quando
riceveva il Signore.
Chiese l'Olio Santo, il Sacramento del cristiano malato, perché voleva prepararsi bene per quando il Signore sarebbe venuto a prenderlo.
Preparammo la celebrazione con cura. Anche la moglie volle ricevere l'Unzione degli infermi insieme col marito. "Sono vecchia, diceva, e non
mi resta molta strada da fare: voglio prepararmi bene anch'io per quando verrà".
Amministrammo il Sacramento nella Messa della Domenica e fu una festa. Kutujeniò venne in chiesa sorretto dai figli, che lo adagiarono
su una branda al centro dell'assemblea. La moglie sedette accanto a lui. Fu una Messa solenne. I bambini poi erano galvanizzati dalla festa
dei nonni che si preparavano per andare a vedere Gesù. Kutujeniò era raggiante, si era preparato bene e partecipò sentitamente alla
celebrazione. Quando lo salutai volle dirmi ancora che era contento, che non gli mancava più niente, aspettava solo che il Sgnore lo venisse a
prendere, il Signore che era stato tanto buono con lui.
E il Signore venne cinque giorni dopo. Io ero a Bissau, quando si spense, ero alla capitale, in partenza per l'Italia. Mi dissero che morì sereno,
contento, col sorriso sulle labbra.